Adolfo Wildt e l’irregolarità della fisiognomica

“L’opera d’arte non è per gli occhi, è per l’anima” diceva Adolfo Wildt. Bisognerebbe crederci veramente al vangelo di queste bucoliche maschere. Maschera dell’idiota, 1903-1910 – Adolfo Wildt. Marmo h 26 cm; altorilievo su tavola quadrata in bronzo, h 31 cm.Sono semplicemente dotate di bellezza, singolare?! Non manca l’armonia nella paura degli sguardi che raccontano la naturale irregolarità dei sentimenti di queste anime. Attraverso la fisiognomica, solo di recente questo grande scultore ha avuto la riconoscenza che si meritava dopo un lungo periodo di isolamento critico dovuto a insolenze di tipo politico che lo tacciavano come artista di regime. Se da una parte la sua arte risente di quel periodo questo non significa che Wildt condividesse le idee del fascismo. Guardando attentamente le sue opere infatti notiamo che lo stimolo creativo e culturale era tale da evadere quasi silenziosamente dalla retorica fascista per conquistare con evidente purezza uno stile che racchiude il meglio di quegli anni così difficili. La visione artistica di Wildt era complessa e semplice allo stesso tempo basata sulla perizia tecnica, sulle capacità interiori a sua volta riconducibili alla sensibilità del valore spirituale della persona. Il valore del mestiere era legato strettamente a quello della materia, e solo la conoscenza approfondita di entrambe poteva portare l’artista a un livello tale da comunicare con serietà il cuore del proprio essere. Come si sa il materiale preferito di Wildt era il marmo, proprio per la difficoltà tecnica di realizzare l’intento di un’elavazione spirituale, esaltazione?; il marmo infatti non concede errori o ripensamenti: tutto deve essere già pensato a priori. L’arte è fatica, sforzo dell’io, armonia della vita sofferente; arte come essenza ricavata dalla necessità di valori morali e sociali che l’artista deve cercare di trasmettere puntando sempre a una verità espressiva, questa dotata di pazienza e di certosina comprensione.

Essere e essere, possono essere stati gli occhi clinici di quest’uomo dotato di una grossa corazza caratteriale come una scorza monumentale sorretta dall’esistenza chiede aiuto al destino…si può pensare. Fin dai primi momenti creativi dell’artista fu evidente l’amore stretto con la cultura classica dell’arte rifiutando contatti con le idee avanguardistiche. Wildt si pone senza ambiguità già nelle prime battute quale scultore di tempra notevolissima deciso a seguire una strada personalissima ricca di un passato prezioso e per tutti noi incancellabile; si fa così portavoce di una storia antica ma in chiave moderna trovando soluzioni innovative, senza clamori o novita’ di facile presa. Dal Simbolismo trasse molti spunti ma distaccandosene quel tanto da poter realizzare opere di qualità prive di uno stile ridondante tipico del periodo. Con la “Maschera del dolore” l’artista traccia la propria strada concependo un’opera che racchiude un’abile sintesi tra reminescenze classiche, energie espressionistiche e valori formali tendenti all’astrazione. Vicino allo spirito del Simbolismo tedesco, Wildt fu attratto, successivamente, dagli ideali artistici della Secessione viennese con una particolare attenzione per i lavori di Gustave Klimt, giungendo, poi, nei primi anni dieci del Novecento a rielaborare in modo autonomo gli elementi principali dei due movimenti di lingua tedesca e fondendoli in una forma espressiva altamente personale. Arriva il tempo in cui si iscrive a Brera.

Qui lo influenzano i grandi gessi: le copie del “Galata morente”, del “Laoconte”, dei marmi fidiaci e michelangioleschi. “Tra i gessi di Brera è un nudo di Fidia,un nudo sdraiato, credo uno dei fiumi del timpano del Partenone. Io da giovinetto passavo la mano su quel ginocchio che pareva liscio, chiudevo gli occhi, e col tatto ritrovavo piani e piani in quel ginocchio così liscio, e ossa e ossa sotto la superficie che pareva tonda, e muscoli e muscoli ma così nascosti che mi sembravano cuciti. Bisognava scucirli, far giocare ossa e muscoli uno a uno”, confesserà lui stesso a Ojetti, nel 1926. Questa confessione di Wildt rivela quanto fosse forte il desiderio di far risaltare la muscolatura, ovvero quel sentimento espressionista che lo porterà a esasperare l’anatomia in forme organiche dalla forza dirrompente. Il “Prigioniero” (1915) è un chiaro esempio di straordinaria forza espressiva che fa di Wildt un maestro dell’Espressionismo italiano. Un altro elemento che caratterizza l’opera wildtiana è sicuramente il rapporto luce-ombra: “tutto il segreto della scultura è lì, nel chiaroscuro” scriverà infatti Wildt nell’Arte del marmo. Wildt ha lavorato per offrire a noi un mondo di sentimenti intrisi nella materia lucente e perfetta del marmo fino a farlo diventare avorio e maiolica. È proprio nel marmo che Wildt ci mostra i risultati più alti di quella ricerca che punta a rispettare il dolore della’esistenza, a valorizzare i valori dell’amore e della fede in Dio. L’anima è nella materia e come la materia viva lucente. L’anima diviene quindi essenza dell’opera dove la conoscenza tecnica del mestiere assume un valore etico oltre che estetico : solo nella forma nitida e precisa si può svelare la verità dell’io tutto. Wildt nacque a Milano nel 1868 da una famiglia di origine svizzera. Per problemi economici Adolfo Wildt aveva dovuto interrompere le scuole dopo la terza elementare per cercare un lavoro .Già all’età di undici anni entrò in contatto con l’arte scultorea facendo da garzone al famoso scultore Giuseppe Grandi. In questo incontro sembra che Wildt abbia tratto diverse riflessioni,soprattutto su quello che non bisogna fare in scultura e cioè : esclusione della modellazione pittorica,affondamento del pollice in una materia molle e cedevole ,creazione di masse plastiche ricche di corrugamenti, increspature, abrasioni. Cerchiamo di ricordare il suo l’operato come l’anima di una donna, come l’essenza di una terra, resa materia o vita.